di Luigi Manconi
Domenica Il Sole 24 ORE, 10 maggio 2015
Il carcere è il luogo della nostra organizzazione collettiva dove più alta è la percentuale di analfabeti e di analfabeti di ritorno. Allo stesso tempo, è il luogo dove la miseria sociale e culturale può giungere ad attivare le strategie più tenaci di resistenza e di emancipazione, affidate a faticosi processi di formazione e di autoformazione. In genere percorsi individuali, perseguiti attraverso la ricerca dolorosa di spazi propri e personali, all’interno di una dimensione congestionata e affollata. E affollamento non è quello che si crede abitualmente. Non è la proiezione concentrazionaria di una spiaggia del litorale romagnolo a ferragosto. È, piuttosto, la promiscuità fisica e mentale e, per così dire, spirituale. È l’addensarsi impudico di corpi e il mescolarsi soffocante di fiati odori umori, che realizzano una sorta di spoliazione della personalità, ridotta alla mera dimensione fisica (la «nuda vita»).
Qui, in questo abisso – dove in due metri quadrati trovano posto il water, la doccia, il fornello e il cibo – davvero ci si può perdere, scoprendo di essere niente più che le proprie elementari funzioni biologiche. Oppure, toccato il fondo, ci si può salvare perché si rintraccia il nocciolo essenziale di se stessi. Quel fondamento irriducibile della persona ha bisogno di una voce per parlare, dentro il frastuono assordante e ottundente di un ossessivo accalcarsi. Talvolta la scrittura soccorre. Proprio lì la scrittura, a confronto con l’essenzialità dell’individuo spossessato di tutto, può essere la forma altrettanto essenziale della sopravvivenza: una forma scarnificata e ridotta all’osso, com’è nelle esercitazioni letterarie di molti detenuti (va ricordato che all’interno delle carceri italiane, in quella povertà assoluta, si tengono decine di corsi di scrittura creativa). Nel romanzo Cattivi, Maurizio Torchio, che detenuto non è e non è stato, non ricorre al meccanismo della finzione artistica, né a una spericolata procedura di immedesimazione. Il suo io narrante conserva il connotato dell’essenzialità – dire ciò che si deve dire, nell’esatto modo di dire – in virtù di un timbro letterario particolarmente nitido. E ciò dentro una concezione del mondo e del mondo prigioniero che rivela una sua ispirazione classica. Non a caso, il libro si apre con una citazione della Politica di Aristotele: «chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di conseguenza o è bestia o dio».
Mentre il filosofo greco descriveva il funzionamento delle comunità organizzate e indagava oneri e diritti della cittadinanza, Torchio raccoglie da terra ciò che Aristotele aveva scartato. E lo visita: palmo a palmo. Gli uomini che non sono “parte dello stato” li trova oggi rinchiusi dentro le mura di un carcere e dentro i confini di un’isola. Essi sono non solo fuori dalla collettività dei cittadini ma, per così dire, si trovano al limite dell’umanità stessa: bestie o dèi. Delle bestie hanno il richiamo continuo e feroce ai bisogni del corpo, l’assoggettamento doloroso alle necessità che non danno loro tregua. E che li richiamano, nonostante tutto, alla vita. I loro corpi sono “rubinetti che perdono”: perdono linfa ogni giorno, perdono denti, perdono colore dalle guance, perdono peso, perdono ogni accenno di cura e di bellezza. Ma questi avanzi di uomini hanno anche qualcosa degli dèi: dèi lontani e “impotenti” che non possono fare nulla della propria o dell’altrui vita. Eppure «dèi pericolosi, perché criminali». Trovarsi al di là o al di qua del muro è un attimo, un inciampo nella vita, come uno scatto fotografico mal riuscito: «un istante dà il nome a tutta la tua vita. Ma chiunque ne esce male, a ricordarlo soltanto per la cosa peggiore che ha fatto». Il libro di Torchio è così vero non perché riesce a comunicare una verità anche sociologica, ma perché il suo vigore narrativo trasforma l’esattezza della descrizione in un’emozione capace di deflagrare nell’intelligenza e nel cuore del lettore. Torchio va dritto alla carne, realizzando un contatto quasi fisico con il carcere, senza guanti di lattice. E qui sta la potenza della sua scrittura: la letteratura, com’è sempre negli scrittori di valore, non anestetizza il dolore. Ce lo restituisce in tutta la sua violenza, in un libro dove il corpo è, allo stesso tempo, contenuto e forma espressiva. Materia del racconto e strumento del racconto.
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Appuntamento con Maurizio Torchio il 4 giugno 2015, alle 21 al Punto Einaudi (Via Guelfa 22, Firenze).